Ambienti - 08 Maggio 2025
Funziona ancora l’Open space? Il ritorno delle stanze per il vivere domestico
Per anni l’open space ha dominato l’immaginario domestico: grandi ambienti aperti, senza barriere, inondati di luce naturale e apparentemente perfetti per una vita moderna, dinamica e condivisa. Cucina, soggiorno e zona pranzo fusi in un’unica superficie continua, a suggerire un ideale di trasparenza, convivialità e fluidità, ma oggi qualcosa sembra incrinarsi in questa visione. Sempre più persone mettono in discussione l’efficacia reale di questi spazi aperti, segnalando una crescente insofferenza verso una disposizione che, nella sua promessa di libertà, nasconde spesso una carenza di equilibrio, privacy e identità.
I limiti dell’open space
La pandemia ha agito da detonatore, ma il malessere era già latente. Costretti tra le stesse quattro mura per giorni, settimane, mesi, abbiamo riscoperto l’importanza della separazione, del confine, della possibilità di chiudere una porta. L’open space, pensato per la socialità, si è rivelato una trappola per la concentrazione, un incubo acustico, un contenitore dove le funzioni si mescolano fino a perdersi. Rifletti: cucinare, lavorare, rilassarsi, studiare, ricevere ospiti…tutto nello stesso luogo mentre la vita stessa non è un flusso indistinto – è fatta di pause, passaggi, cambi di ritmo. E lo spazio dovrebbe assecondarli, non cancellarli.
La critica all’open space è sintomo di una riflessione più ampia sul nostro rapporto con lo spazio domestico: l’apertura totale, che in origine voleva essere espressione di modernità e leggerezza, ha finito per spingere verso una standardizzazione delle abitazioni, dove la versatilità si è confusa con la perdita di carattere. Gli ambienti aperti sembrano spesso privi di identità specifica, come se tutto fosse solo “zona giorno”, indefinita e perennemente esposta. Ma ogni attività ha bisogno del suo ritmo, della sua atmosfera, delle sue condizioni sensoriali.
La cucina con il suo odore, lo camera da letto con il silenzio, la sala con la penombra di una lettura pomeridiana. Nell’open space, tutto è insieme, ma nulla è intero.
C’è poi il tema della soggettività.
L’open space funziona per chi ha uno stile di vita altamente condiviso, per chi abita con leggerezza e ama l’informalità. Ma non tutti sono così e la casa non è solo luogo di relazione: è anche rifugio, introspezione, intimità. In uno spazio completamente aperto, viene a mancare la possibilità di modulare la presenza dell’altro, di scegliere se essere visibili o meno, se condividere o no e questo a lungo andare può incidere profondamente sul benessere psicologico.
Anche dal punto di vista dell’ordine visivo e della cura quotidiana, l’open space presenta delle fragilità. In assenza di barriere fisiche, ogni dettaglio è esposto allo sguardo e un disordine in cucina si riflette sul soggiorno, una pila di fogli sul tavolo da lavoro invade la zona pranzo. Questo aumenta la pressione estetica sulla casa, che deve risultare sempre “presentabile”, ma anche la fatica mentale di gestire un ambiente che non offre tregua né protezione.
E allora cosa fare? Non si tratta di rinnegare in blocco l’open space, ma di superarne l’univocità.
Stiamo andando quindi verso soluzioni sempre più flessibili, che combinino apertura e chiusura, che prevedano ambienti trasformabili, ma anche nicchie intime e zone riflessive. L’architettura deve tornare a raccontare la complessità dell’abitare, non la sua semplificazione estrema, quindi sì a:
- spazi multifunzionali ma contenuti;
- elementi divisori leggeri e reversibili (come pareti scorrevoli, librerie passanti, tende spesse);
- attenzione all’acustica e alla luce come strumenti per definire atmosfere;
- rispetto per la necessità di “assenze” all’interno della presenza domestica.
La casa post-open space non è un ritorno nostalgico al passato, ma un’avanzata verso dove ogni cosa trova il suo posto – e ogni persona anche.